Lettera della Presidente

Gennaio / Febbraio 2014


Un “Capodanno” da NON dimenticare

In questi giorni di festa appena trascorsi, ho avuto modo di riflettere su alcune scelte della mia vita e ripercorrere la mia storia di fede.
Ho potuto constatare ancora una volta come il Signore l'abbia attraversata col suo intervento misericordioso, offrendomi tante occasioni di Grazia che alcune volte (grazie a Dio!) ho saputo cogliere e queste, in qualche modo, hanno cambiato la rotta del mio cammino.
Ho pensato di condividere con voi questa mia esperienza…
Pomeriggio inoltrato del 31 dicembre 1980, viale Trastevere, a Roma, come il solito molto trafficato da sfreccianti e numerosi veicoli e da frettolosi passanti ansiosi di tornarsene a casa. Mia cugina Marina ed io siamo appena uscite dal parrucchiere, dopo estenuanti ore d'attesa…, tuttavia molto soddisfatte del risultato ottenuto! Camminiamo con passo affrettato per le moltissime cose ancora da fare, concitate per gli ultimi preparativi ed entusiaste di partecipare al Gran Veglione di San Silvestro al quale siamo state invitate.
Siamo intente a parlottare e a programmare nel dettaglio ogni particolare dei nostri abiti da sera e degli accessori da indossare quando, improvvisamente, proprio davanti ai nostri occhi, vediamo un passante sbandare e contemporaneamente sopraggiungere un autobus di linea.
Il malcapitato barcolla e cade in terra, mentre l'autista del bus procede la sua corsa non essendosi neppure accorto di aver urtato l'uomo con la fiancata dell'autobus.
Dopo un momento di sgomento, ci avviciniamo e vediamo che il poveretto perde molto sangue dal naso, è poco cosciente, anzi, a dirla tutta, è “ubriaco”. Gli facciamo qualche domanda, ma risponde soltanto con suoni incomprensibili, cerchiamo qualcuno che ci aiuti ad alzarlo, è troppo pesante per noi e poi abbiamo premura di andare. Ma tutti hanno fretta e scappano via, presi dalle loro cose e dai loro problemi. Anche noi del resto abbiamo tanta impazienza di andare alla nostra festa… ma che fare? Lì vicino, per fortuna, c'è l'ingresso del Pronto Soccorso dell'ospedale “Regina Margherita”; mentre Marina resta con il poveretto sdraiato in terra, io corro al Pronto Soccorso. Al dottore spiego l'accaduto, dicendo anche che da sole non riusciamo ad alzare l'uomo da terra, che tra le altre cose abbiamo un impegno urgente e che quindi è necessario che qualcuno dell'ospedale venga a prenderlo perché perde tanto sangue.
Con molta calma, il medico risponde che secondo il regolamento né i dottori né gli infermieri, durante le ore di servizio, possono assentarsi dall'Ospedale e che l'unico modo per avere assistenza è quello di chiamare l'autombulanza. Naturalmente protesto, dico che mi sembra assurdo, ma lui, inflessibile, risponde che queste sono le regole. Correndo, torno da mia cugina, le racconto tutto, ci confrontiamo e non essendoci altra via di uscita (non c' erano ancora i cellulari!), nonostante i nostri desideri fossero altri, prendiamo la decisione che ci sembra più giusta. Dopo diversi tentativi, riusciamo con fatica ad alzare il nostro signore mezzo addormentato. Ovviamente, la nostra messa in piega e tutto il resto… vestiti e scarpe macchiati di sangue sono irriconoscibili. Dopo un tempo che non so quantificare, passando tra le persone del tutto indifferenti, arriviamo al Pronto Soccorso dove i dottori, dopo una serie di domande: chi, come, quando perchè… per fortuna si prendono cura del nostro uomo senza nome. Intanto riusciamo a trovare un telefono a gettoni e avvisiamo i nostri cari che ci raggiungeranno in ospedale. Ormai senza fretta, siamo fuori della porta dell'infermeria, in trepidante attesa di avere notizie del malcapitato. Ed ecco, finalmente il dottore ci informa sulle condizioni del paziente: ha ripreso conoscenza, ma per la sua situazione generale dovrà restare sotto osservazione. I famigliari, informati, presto lo raggiungeranno e cosa più importante… vorrebbe conoscere noi. Marina ed io, mano nella mano, con il cuore che batte forte dall'emozione entriamo nella stanza e accenniamo un timido sorriso… Lui, invece è tranquillo, disteso sulla lettiga, pulito e sorridente, ci allunga le mani, in segno di benvenuto e ci dice: “Grazie, ragazze… mi chiamo Mario!”.
Naturalmente alla festa non ci siamo più andate ma abbiamo festeggiato lì quel Capodanno particolare, che non dimenticheremo mai più, con Mario, i suoi parenti, i nostri mariti, con i dottori di turno… in un clima di comunione e di condivisione che così intensamente non avevo mai vissuto prima…
Da questa esperienza ho compreso che la felicità, quella vera, che tocca profondamente il cuore consiste nel donare se stessi e nel vivere profondamente con gli altri. Perché in ogni “altro” c'è l'opportunità di incontrare Gesù.
Con profondo affetto.

Paola Staiano

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